INTERNET ED IL DIRITTO

I risultati del concorso indetto da Studiocelentano ©

Il diritto della rete e il diritto in rete - Arianna Pretto

‘AltaVista found 266940 Web pages for you’. Un motore di ricerca, indice esauriente per nomi e per argomenti dell’imponente libro virtuale, anche interrogato molto sommariamente, rivela che tante sono le pagine dedicate o correlate al ‘diritto’. E interrogazioni piu’ sofisticate, che usano congiunzioni tra più parole rinominandole ‘connettori booleani’ alla stregua di una grammatica futuribile, rivelerebbero altre pagine ancora. Già sospettavamo che l’onnicomprensività caratterizzasse un tema come il ‘diritto’, ma essa ne risulta accresciuta in maniera esponenziale dal trattare il termine come stringa di ricerca.

Il risultato di una ricerca sul diritto colpisce chi lo legge sullo schermo con lo schiaffo della quantità, anziché accendere le più varie reazioni che si producono in chi ha trovato ciò che cercava scartabellando da un libro all’altro (dal sollievo perché il saggio è più breve del previsto alla pronuncia di improperi contro l’autore di una monografia incomprensibile). Della ricerca on-line, stupisce soprattutto la contraddizione in termini di una ricerca a-critica, perché di ciò si tratta: con ogni probabilità, l’indagine avrà recuperato tutto il recuperabile, da una denuncia della violazione dei ‘diritti’ umani nel recente conflitto kosovaro ad un inno alla loro salvaguardia, dal sistema infallibile per attaccare ‘diritto’ un quadro al muro, al programma universitario di un corso di ‘diritto’ pubblico. Chiamare il risultato ‘retrieval’ non fa che mascherare con il fascino della lingua telematica l’assenza di critica: Internet annacqua l’accezione… giuridica di diritto in un’emulsione di concetti.

Ma l’enormità dell’informazione rimane immutata allorché ci si avventuri in una ricerca più strettamente di diritto, anziché sul diritto non meglio specificato. C’è innanzitutto il diritto della rete. I problemi giuridici di Internet sono tanti quanti quelli di un’istituzione giuridica tradizionale: a cominciare dalla questione ‘globale’ della legge applicabile alla rete. Non è chiaro come debba atteggiarsi il diritto internazionale privato nei confronti di un oggetto che si estende a praticamente tutte le giurisdizioni statali. Per aggirare la difficoltà, alcuni plaudono all’autoregolamentazione da parte degli utilizzatori, i cui contenuti e autorevolezza rimangono però nel vago.

Ma il diritto della rete conosce anche una prospettiva più particolare e che potremmo dire ‘interna’ alla rete stessa. La dottrina, ma anche i commentatori pratici, amano disquisire sulle questioni di intellectual property e di copyright sulle informazioni diffuse, sulle barriere elettroniche che si frappongono alla formazione del contratto, sulla firma virtuale da apporre su documenti elettronici, sui dettagli della conclusione dei contratti commerciali via Internet, sulle soluzioni di stampo penale contro l’abuso dei servizi offerti. Manuali e tesi di laurea che vertono sui numerosi profili del World Wide Web sono ormai numerosissimi e pubblicizzati, com’è naturale, sulle pagine elettroniche.

Internet bussa anche alle porte delle aule di tribunale, almeno in due diverse vesti. Da un lato, la rete è sempre più oggetto delle fattispecie reali e origina cause vertenti sulla fornitura del Web come servizio. Ecco allora che la litigiosità investe la pubblica amministrazione, se boicotta il regime di concorrenza concedendo l’accesso gratuito ad Internet ai suoi utenti quando i privati lo commerciano a titolo oneroso. D’altro canto, Internet aggiorna prepotentemente le fattispecie giuridiche connotandole di implicazioni inedite. Così, da qualche tempo a questa parte, si può violare un marchio impiegandolo quale ‘domain name’ su una pagina elettronica e ci si può rendere partecipi di illeciti concorrenziali usando in rete segni distintivi che generano confusione: vecchie conoscenze quali lo sviamento della clientela escono amplificate dal loro passaggio in rete. Anche la pubblicità ingannevole sembra più subdola quando è capillarmente trasmessa. Ancora, i diritti della personalità si fanno appariscenti in rete, e così ne è della loro violazione. Comparativamente maggiori sono le potenzialità del diritto di cronaca, e più severamente ne è riguardato l’abuso. La macchia che infanga l’onore e la reputazione attraverso la diffusione di informazioni lesive è più nera sullo schermo di un terminale e si espande in tempo reale. Il reato di diffamazione si nasconde potenzialmente in un’e-mail inoltrata al destinatario sbagliato e fa capolino da quei fori di discussione per materia che sono i newsgroups, abituatisi alla libertà e a volte all’anarchia di linguaggio in tempi in cui i gruppi di discussione erano confinati a pochi adepti di un certo settore. L’aumento del numero dei frequentatori della rete suggerisce ora di tenere a freno la lingua. La possibilità di condividere idee e scambiare frasi con intere mail lists, ovvero con tutti quegli utenti che sottoscrivono un elenco postale gestito da magari da un moderatore centrale distratto, rende l’offesa verbale davvero concreta, ancorché virtuale nella trasmissione. I tentativi della magistratura di riportare il Web sotto etichette più rassicuranti e note, quali ‘organo di stampa’ e ‘veicolo pubblicitario’, non ne cambiano la natura eccezionale come elemento di fattispecie, vuoi reale, vuoi giuridica.

Il diritto della rete attende dunque sviluppi e certamente talvolta comporterà un processo di revisione degli strumenti giuridici tradizionali, la cui applicazione potrebbe risultare ardua. La prospettiva presente è de lege ferenda e tanto più imprevedibile in quanto lasciata all’immaginazione degli studiosi.

Mi pare che ci sia invece un’accezione del termine ‘diritto’ associato a Internet più immediatamente palpabile perché dispiega effetti immediati ed incide sulla conoscenza del diritto dell’utilizzatore: si tratta del diritto in rete. Il cyberdiritto è vasto e le guide per quelli che sono ormai orribilmente omologati quali ‘operatori del diritto’ si sprecano. Ogni ateneo mette in rete, a disposizione dei suoi studenti, una serie di banche dati giuridiche dalle dimensioni variabili: magari una raccolta di atti normativi, o dieci anni di Massimario del Foro Italiano su cd-rom, forse le pronunce civili rilevanti del Bundesgerichtshof, a volte Eurolaw. Sapendo come interrogare la propria lampada di Aladino telematica, si possono leggere le opinioni dei Lords d’Inghilterra in una pluralità di questioni ‘ex parte Pinochet’, si può visitare la banca dati del Centro di Documentazione della Cassazione, si possono verificare le proprie nozioni di analisi economica del diritto controllando chi ha scritto ‘Law and Economics’ nel catalogo bibliografico di un’università americana e scoprire che nel frattempo il libro è giunto alla seconda o terza edizione.

E’ con riguardo alla ricerca dell’informazione giuridica, io credo, che un tema quale ‘Internet e diritto’ si fa personalissimo e quasi intimo, perché stravolge i connotati della ricerca giuridica come ciascun individuo la svolgeva prima. Innanzitutto, è abbastanza evidente che andare in biblioteca a piedi o via telnet non sia la stessa cosa, o che ‘scrollare’ (imbarazzante neologismo) le pagine di un testo non equivalga a sfogliarle. Il diritto in rete è più pulito, quasi asettico, meno ingombrante e più leggero: chi cerca sentenze antiche può ormai evitare di impolverasi con i tomi ottocenteschi degli All England Law Reports, di cui occorre prestare attenzione a non spezzare la costola prima ancora di preoccuparsi di girarne le pagine delicatamente. I volumi elettronici degli All England Law Reports si possono copiare e incollare (‘cut and paste’) e tutto ciò, incredibilmente, senza far inorridire i bibliotecari, normalmente restii a farli fotocopiare e scandalizzati al solo pensiero del contatto di una preziosa pagina del 1870 con materie spurie, figuriamoci colla. La quotidianità della ricerca giuridica ne risulta modificata. Internet ruba fisicità al diritto.

Ma c’è di più. La ricerca cartacea ed elettronica della stessa informazione dà risultati diversi. Un database di sentenze, interrogato con una stringa di ricerca come ‘pegno di azioni’, recupererà centinaia di documenti, un massimario cartaceo ne recupererà di meno. Trovando la sentenza on-line immediatamente ed avanzando tempo, si darà magari un’occhiata ai suoi ‘hyperlinks’, ai nessi ipertestuali che la rinviano magari ai precedenti giurisprudenziali e forse alle note a questi ultimi. Nella stesura di una comparsa di risposta per un processo civile, è probabile che ci si fermi qui: la ricerca ha finalità pratica e il rinvenimento della sentenza di Cassazione che conforta la nostra posizione, magari supportata da una pronuncia del tribunale di Milano, ne decreta il successo. Dovendo scrivere un saggio accademico, invece, il saltellare impazzito tra gli hyperlinks promette a volte di investire la credibilità dell’attività scientifica. Nella migliore delle ipotesi, si citeranno informazioni che non si sarebbero altrimenti citate. Nella peggiore, le si citeranno dove non andavano citate.

Un esempio potrà chiarire le conseguenze estreme dell’abuso dell’ipertesto. Alcune note a piè di pagina di redazione americana occupano due terzi del foglio: Westlaw ha lasciato il segno e qualcosa suggerisce che pagine intere di riferimenti siano state ‘scaricate’ dalla banca dati on-line, e questa volta ben venga il neologismo che rende l’idea. Il dubbio che l’autore non abbia letto nulla di tutto ciò si insinua subdolo nella mente del lettore e getta ombre sullo spessore scientifico del testo. Ma le insidie telematiche non si fermano qui. Il servizio di ‘shepardize’, che permette di ricostruire l’evoluzione di una sentenza attraverso i riferimenti ad essa contenuti nella giurisprudenza successiva, si presta, tra le altre ammirevoli sue funzioni, pure allo sproposito: la nostra sentenza sul pegno di azioni potrà venire citata da una successiva in tema di scioglimento di società per confortare un mero obiter dictum, con buona pace della coerenza del nostro saggio, se decideremo di inserirvela. L’esubero di informazione giuridica telematica, solitamente relegata a piè di pagina, provoca effetti deleteri in chi legge, non ultimo il fastidio, che già in epoca cartacea si provava alla lettura di un elenco di nozioni sui diritti reali di garanzia ma che beneficiava della più clemente definizione di ‘noia’.

Da ultimo, vorrei esternare una preoccupazione personalissima e tuttavia ricorrente in chi si avvia alla ricerca: come si valuta la qualità della ricerca giuridica accademica attuata a mezzo Internet? E’ palese che la quantità dell’informazione non è un buon criterio: non lo è mai stato, ma in epoca di sovrabbondanza lo è ancora meno, posto che i dati, sempre che li si sappia consultare, sono alla portata di chiunque. Anche ciò che si chiamava ‘completezza’ della ricerca sembra annacquarsi nel mare magnum del cyberdiritto. La selezione della migliore informazione potrebbe essere un primo criterio: che sia pertinente è necessario, ma non è lo di meno che sia al servizio del ragionamento giuridico. Si può azzardare almeno un’ipotesi su che cosa sia quest’ultimo, e provare a definirlo approssimativamente come la logica con cui si argomenta una tesi in materia giuridica. Con maggior certezza, però, si può dire che cosa esso non è: il ragionamento giuridico non è un conglomerato di collegamenti ipertestuali, perché questi non hanno la consequenzialità logica di quello. La sentenza che balza fuori dall’ipertesto di un’altra ne condividerà al più qualche parola intercettata da un motore di ricerca, non la ratio decidendi. La ricerca a-critica è una contraddizione che non merita attributi di scientificità.

Arianna Pretto